Ad oggi risultano essere molti ex studenti del collegio Ghislieri di Pavia “al fronte” nella battaglia contro il Coronavirus, anche fuori dai confini italiani.
Riportiamo la testimonianza del dott. Vincenzo Villani, dagli Stati Uniti d’America. Laureato a Pavia in Medicina e Chirurgia nel 2010, sta completando oggi l’ultimo anno di specializzazione in chirurgia generale al Presbyterian Queens Hospital di New York.
“Quando all’improvviso la pandemia ha colpito New York” – racconta il dott. Villani – “nel mio ospedale siamo passati da otto pazienti positivi a più di duecento in soli cinque giorni. Tempo altre due settimane, e più del novanta per cento dei pazienti ricoverati erano positivi al Coronavirus, al punto che abbiamo dovuto provvedere alla cancellazione di tutte le operazioni chirurgiche a eccezione dei casi di assoluta emergenza”.
Questa testimonianza ci porta inevitabilmente indietro nel tempo di due settimane quando anche il Policlinico San Matteo di Pavia era in piena emergenza coronavirus.
Prendersi cura dei pazienti è difficile, dal punto di vista medico, ma ancora di più dal punto di vista emotivo.
“Il paziente tipico arriva in pronto soccorso con tosse e dispnea, senza altri grossi problemi – Continua Villani – ma nel giro di poche ore i livelli di ossigeno si abbassano pericolosamente e i pazienti devono essere intubati. Arrivano in terapia intensiva così, coi vestiti ancora addosso”.
Un dettaglio umano ha colpito in particolar modo il dott. Villani: “Spesso, fra gli effetti personali dei pazienti, c’è un cellulare con vari messaggi e chiamate rimasti senza risposta. Quel cellulare ti ricorda di come la vita di quella persona sia stata sconvolta dal virus in maniera così repentina. Da lì iniziano settimane di un calvario fatto di respiratori, anti-infiammatori, antibiotici, dialisi, ed è una lotta che il paziente deve affrontare in solitudine”.
Non è facile mantenere la lucidità in una situazione del genere, confessa il dott. Villani.
“Personalmente ho abolito i social media e le notizie, che non fanno altro che parlare di Coronavirus, visto che già me ne occupo per dodici ore al giorno”.
C’è qualche spiraglio per la speranza?
“Dopo settimane stiamo finalmente assistendo a una diminuzione dei nuovi ricoveri. Le nostre terapie intensive rimangono piene alla massima capacità ma, in lontananza, vediamo un possibile ritorno alla normalità. Poi, ogni volta che un paziente con Coronavirus viene dimesso, in ospedale gli altoparlanti passano ‘Don’t stop believin’’ dei Journey; io mi lamento di quest’americanata, ma dentro di me sono contento di sapere che c’è una persona in più che torna a casa”.